23 Feb Funzionaria, femminile singolare: quando l’inclusione passa per le parole
Per promuovere una nuova sensibilità nei documenti interni, Agenzia delle entrate e Cug pubblicano le “Linee guida per l’uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere”. La pubblicazione, destinata ai dipendenti e alle dipendenti, vuole stimolare una riflessione a favore di una maggiore inclusività nei testi. L’uso del genere femminile risponde infatti a un preciso bisogno di riconoscimento della qualificata presenza delle donne nella società. Al via anche una campagna di comunicazione interna e un corso in modalità e-learnig.
“Le parole sono azioni e fanno accadere le cose” sostiene il drammaturgo britannico Hanif Kureishi. Parte da una citazione l’ultima iniziativa sul linguaggio dell’Agenzia delle entrate realizzata insieme al Comitato unico di garanzia (Cug) in attuazione di una delle misure del Piano triennale di azioni positive, che mira a rendere più inclusivi verso le donne i testi delle comunicazioni all’interno degli uffici. “Le Linee guida per l’uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere” sono online sul sito dell’Agenzia e oggetto di una campagna di sensibilizzazione avviata proprio in questi giorni sul portale intranet. Frutto di un lavoro di analisi e studio di documenti e manuali sul tema, con attenzione ai dettami dell’Accademia della Crusca, la pubblicazione non ha, naturalmente, un carattere prescrittivo, ma mira a promuovere una riflessione con riguardo a un uso più attento e consapevole del linguaggio.
“Funzionaria”, “direttrice”, “consigliera” sono alcuni esempi di nomi declinati al genere femminile che andrebbero preferiti laddove il riferimento è a una donna. Non si tratta tanto, si spiega all’interno delle linee guida, di volgere semplicisticamente al femminile i testi, quanto di scoprire e affinare, laddove possibile, una nuova sensibilità che si affianchi a quella per la semplificazione del linguaggio: chiarezza da una parte, attenzione al genere dall’altra. Le Linee guida, che hanno guadagnato il placet dell’Accademia della Crusca, con la prefazione del presidente della prestigiosa istituzione, Claudio Marazzini, presentano le diverse possibili strategie di gestione dei testi in un’ottica di maggiore inclusività.
Maestra sì, prefetta no?
In italiano, il modo più comune di formare il femminile è sostituire la desinenza del maschile con un’altra desinenza. Sindaca, ragioniera, assessora, ambasciatrice: la lingua italiana comprende una gamma lessicale ormai consolidata di forme femminili e una serie di neoformazioni tra cui nuovi termini femminili per professioni o ruoli istituzionali. Tutte queste forme sono grammaticalmente corrette e il loro uso è pienamente legittimo, oltre che auspicabile. Uno dei più diffusi dizionari della lingua italiana, lo Zingarelli, già nel 1994 introduceva la desinenza femminile a circa ottocento mestieri e professioni fino ad allora declinati esclusivamente al maschile, nell’ottica di un’aspirazione alla parità di diritti, anche lessicali, tra uomo e donna. Ciò nonostante, in molte occasioni la versione “al femminile” fatica a entrare nel linguaggio comune perché si ha l’impressione che “suoni male”. Un concetto espresso nella prefazione dallo stesso Marazzini: “Ci è facile dichiarare la piena legittimità dei nomi di professione femminili, ed è altrettanto facile ribadire un concetto evidente: che i giudizi di bellezza o bruttezza per le professioni al femminile (…) non hanno alcun senso, perché si basano solo sull’abitudine: pare bello quello a cui siamo abituati, pare brutto quello che è nuovo e diverso”. E come comportarsi con le parole che al femminile restano invariate? Quando la forma del termine non cambia (termini “epiceni”) la concordanza si ottiene con l’uso dell’articolo: termini come giudice, titolare, portavoce, possono essere volti al femminile semplicemente anteponendo l’articolo accordato: “la” giudice (non il giudice donna!), la titolare, la portavoce.
Nei testi c’è posto per tutti
Le Linee guida raccomandano inoltre di usare il genere femminile all’interno di comunicazioni destinate a donne e di fare spazio a entrambi i generi laddove, invece, sono indirizzate a uomini e donne. Un risultato che può essere raggiunto ripetendo il termine declinato al maschile e al femminile (invece di “i lavoratori” “le lavoratrici e i lavoratori”, sdoppiamento esteso) o indicando femminile e maschile separati dalla barra (il/la sottoscritto/a, sdoppiamento contratto, consigliato soprattutto nella modulistica). Una ulteriore strategia può essere quella di utilizzare formulazioni neutre o nomi collettivi per “oscurare” il genere e, quindi, includere uomini e donne (“le persone interessate” al posto di “i cittadini e le cittadine interessati”).
Ma ciò che più conta, al di là delle singole strategie, è allenare l’occhio e l’orecchio a tener conto del fatto che “ciò che non ha un nome non esiste” e, quindi, scrivere e parlare esclusivamente al maschile è come negare, in un certo senso, la presenza delle donne nel mondo del lavoro e nella società in generale. Per questo, le Linee guida contengono una serie di spunti tratti da documenti interni e propongono al lettore una o più riscritture utili per scardinare gli automatismi e sviluppare una maggiore consapevolezza. Perché se è vero che non esistono rigide regole da applicare, è altrettanto vero che occorre prima di tutto stimolare una riflessione all’interno degli uffici. A questo scopo, è già partita la campagna di sensibilizzazione “Una società giusta con le parole giuste” per promuovere le Linee guida e, dal prossimo 8 marzo, sarà in piattaforma e-learning un corso dal titolo “Scriviamolo al femminile”, destinato alle dipendenti e ai dipendenti del Fisco interessati a utilizzare un linguaggio più attento alle differenze di genere.
Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale