Dal diniego di autotutela non si generano liti definibili

Dal diniego di autotutela non si generano liti definibili

Limiti di impugnabilità del diniego di autotutela, produzione della delega di firma in sede di legittimità, necessità della delega di firma per atti diversi dagli avvisi di accertamento e rapporto tra diniego di autotutela e definizione delle liti pendenti: sono questi gli argomenti trattati dall’approfondita sentenza n. 24652 del 14 settembre 2021, con cui la Corte di cassazione ha escluso che il diniego di autotutela, impugnabile solo entro ristretti limiti, costituisca un atto impositivo oggetto di lite “definibile”.
 
La vicenda processuale e le ragioni del contendere
La sentenza riguarda due ricorsi: quello dell’amministrazione finanziaria avverso una pronuncia che aveva annullato un diniego di autotutela, e quello con cui il contribuente ha impugnato il diniego di definizione delle liti pendenti, emesso a fronte di domanda presentata in pendenza del giudizio di Cassazione.
Più in dettaglio, l’amministrazione aveva notificato un avviso d’accertamento all’amministratore di una società a responsabilità limitata, al fine di recuperare a tassazione Irap e – l’anno d’imposta è il 1998 – Irpeg. In assenza di impugnazione, l’ufficio aveva iscritto a ruolo le somme dovute, e il ricorso del contribuente avverso la successiva cartella di pagamento, con il quale egli contestava la propria legittimazione passiva, era stato respinto, con sentenza poi passata in giudicato, perché l’avviso si era reso definitivo e l’atto di riscossione era stato impugnato per vizi non “propri”.
Ricevuta l’intimazione di pagamento dal Concessionario, il contribuente presentò un’istanza di autotutela seguita da una successiva diffida e impugnò la risposta negativa, deducendo che l’autotutela è preclusa soltanto in presenza di un giudicato sostanziale (“per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione finanziaria”: così il secondo comma dell’articolo 2 del Dm n. 37/1997).
Ritenendo l’atto impugnabile, e la pretesa di cui all’avviso di accertamento infondata nella parte in cui aveva richiesto l’Irpeg a un soggetto diverso da una società, la Ctp e la Ctr annullarono l’avviso.
 
Da qui il ricorso dell’Agenzia delle entrate, con il quale la stessa lamenta la violazione del principio secondo cui il giudice può sindacare soltanto la legittimità del diniego di autotutela e non anche la fondatezza dell’atto impositivo, e contesta che, nel caso concreto, il provvedimento costituisse una conferma (impugnabile) dell’avviso.
 
Nelle more del giudizio di cassazione, il contribuente ha presentato la domanda di definizione della lite pendente. Ricevuto il diniego, fondato sulla circostanza che la controversia non era relativa a un atto impositivo, lo ha impugnato per due motivi, ovvero il vizio di sottoscrizione del diniego e la violazione dell’articolo 6 del Dl n. 119/2018, che, attraverso il riferimento alla categoria degli atti impositivi, escluderebbe dagli atti definibili solo quelli di riscossione e non anche quelli, come appunto il diniego di autotutela, con cui si ribadisce la legittimità della pretesa impositiva fatta valere con l’avviso di accertamento.
Sulla premessa che la decisione sul diniego di condono è pregiudiziale rispetto a quella concernente l’atto impositivo (cfr Cassazione. n. 31049/2018), la Corte ha esaminato dapprima il ricorso del contribuente e, una volta respintolo, quello dell’amministrazione finanziaria.
 
La delega di firma
Trattando il primo motivo di ricorso del contribuente, relativo al vizio di sottoscrizione del diniego di definizione, la Corte esordisce con un richiamo a principi consolidati (la necessità della delega ai fini della validità dell’avviso, se non sottoscritto dal direttore dell’ufficio; l’assenza di un obbligo di allegazione all’avviso; l’onere di produrre la delega in giudizio a fronte della contestazione del contribuente, eventualmente anche in appello, senza che possa supplire l’ordine del giudice). Subito dopo, (e questo è un primo profilo di interesse della pronuncia), la Corte ammette l’Agenzia delle entrate a produrre la delega in allegato a una memoria (ex articolo 378 cpc) e non al controricorso (pacificamente non notificato). Per la Corte, ciò dipende dal fatto che l’impugnazione del diniego dà vita a una fase incidentale dinanzi al giudice in quel momento competente per la lite “principale”, nella quale l’Agenzia delle entrate è già costituita. Ma più che da questo (cosa accade se nel giudizio “principale” l’Agenzia è resistente e resta intimata, senza notificare il controricorso?), l’ampia facoltà di depositare documenti dovrebbe discendere dal fatto che in casi analoghi la Corte, com’è stato più volte affermato, decide “con pienezza di giudizio e, quindi, anche per motivi di merito” (cfr Cassazione n. 31049/2018), senza quindi l’assenza delle preclusioni proprie del giudizio di legittimità.
 
Dopo un richiamo alla distinzione tra delega di firma e di funzioni, la Corte ricorda (e questo argomento forse sarebbe stato sufficiente per il rigetto del motivo) che la sanzione della nullità per vizi di sottoscrizione è prevista dall’articolo 42 del Dpr n. 600/1973 solo per gli avvisi di accertamento (e soltanto per quelli relativi alle imposte sui redditi – cfr Cassazione, 3826/2018), e non anche per atti diversi, quali cartelle di pagamento, dinieghi di condono, avvisi di mora, attribuzioni di rendita e in genere per gli atti processuali. In tali casi, opera la presunzione di riferibilità dell’atto all’ufficio, superabile solo provando l’usurpazione del potere.
 
Il diniego di autotutela e la definizione delle liti pendenti
Così come precedenti leggi di condono (cfr articolo 2-quinquies del Dl n. 546/94 e articolo 16 della legge n. 289/2002, poi richiamato dall’articolo 39, comma 12, Dl n. 98/2011), anche quella di cui all’articolo 6 del Dl n. 119/2018 limita la definizione alle sole controversie “aventi ad oggetto atti impositivi”.
In continuità con altri documenti di prassi (Circolari nn. 12 e 22 del 2013 e 48/2011), la circolare n. 6/2019 ha ribadito che con “atti impositivi” occorre riferirsi a quegli atti con i quali viene portata a conoscenza del contribuente una “pretesa tributaria quantificata”. Tale non è, evidentemente, il provvedimento di autotutela (quantomeno, quello “riduttivo”), né può esserlo il diniego all’istanza di ritirare l’atto in autotutela, poiché con tale atto non si fa valere una pretesa tributaria, né si ribadisce la legittimità della pretesa impositiva recata dall’avviso di accertamento. Il diniego non costituisce un “rinnovamento” dell’avviso di accertamento, né l’istanza costituisce un rimedio alternativo a quello – giurisdizionale – apprestato dall’ordinamento per la rimozione del provvedimento che si ritiene viziato.
 
I limiti di impugnabilità del diniego di autotutela
Una volta respinto il ricorso del contribuente, e confermato il diniego di definizione della lite perché pienamente legittimo, la Cassazione ha potuto esaminare il ricorso dell’amministrazione, che è stato accolto con decisione nel merito.
La Corte ha ribadito il consolidato principio, secondo cui l’istanza di autotutela attiva un procedimento discrezionale, nel quale l’amministrazione deve ponderare la certezza delle situazioni giuridiche (ovvero, la stabilità del provvedimento non impugnato nel termine decadenziale) con l’interesse alla rimozione di un provvedimento (manifestamente) ingiusto. Tale interesse, però, non deve essere quello concreto e specifico del contribuente, ma deve essere un interesse generale, “che travalica quello della parte in causa”. È quanto accade, ad esempio, allorché il provvedimento trovi la sua fonte in un atto amministrativo annullato, come nel caso di una determina comunale di revisione del classamento.
 
Nella motivazione della pronuncia in esame, oltre a numerosi precedenti di legittimità, è richiamata anche la sentenza n. 181/2017 della Corte costituzionale, che ha rigettato la questione di costituzionalità dell’articolo 19, Dlgs n. 546/1992, nella parte in cui non consente l’impugnazione in via autonoma del silenzio (con valore di rifiuto) di autotutela.
Nel caso concreto, invece, nell’istanza il contribuente si era limitato a dedurre la propria estraneità alla pretesa tributaria e, con una formula standard, integralmente riportata nella pronuncia, l’astratto interesse al ripristino della legalità, non sufficiente per fondare né un obbligo di provvedere, né l’impugnabilità del diniego.



Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale