Indeducibili i costi della pubblicità non indirizzata alla clientela usuale

Indeducibili i costi della pubblicità non indirizzata alla clientela usuale

Non sono deducibili i costi di pubblicità se questa è rivolta a un pubblico di nicchia, lontano dalla comune clientela della società. Ai fini del requisito di inerenza dei costi deducibili, il giudizio di valore qualitativo del costo sostenuto non può trascurare l’incongruenza e l’antieconomicità di tale onere sull’attività d’impresa. Lo ha stabilito la Cassazione che, con la sentenza 2596 del 28 gennaio 2022, ha rigettato il ricorso del contribuente.

La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
La Ctr aveva disconosciuto l’inerenza delle spese di pubblicità dedotte dalla società. L’amministrazione finanziaria, a fondamento dell’atto impositivo, aveva rilevato la scarsa correlazione funzionale tra il costo sostenuto per la pubblicità e l’idoneità della prestazione a produrre utili, comprovata peraltro dall’incongruenza tra spesa sopportata e utili conseguiti. La società contribuente di intermediazione nel commercio di prodotti alimentari e in particolare di prodotti ittici, infatti, aveva destinato una grossa somma per spese di pubblicità, consistenti nell’esibizione del marchio di identificazione del committente su locandine di mostre di pittura, tenutesi in varie località italiane destinate a un pubblico di nicchia lontano dalla comune clientela della società, fino ad arrivare a chiudere il bilancio in perdita (spendendo per quella pubblicità il 39% dei ricavi complessivi).

In tema di redditi d’impresa, ai fini del requisito di inerenza dei costi deducibili, il giudizio di valore qualitativo del costo sostenuto non può trascurare l’incongruenza e l’antieconomicità del medesimo costo sull’attività d’impresa. L’antieconomicità e l’incongruità della spesa sono indici rivelativi della mancanza di inerenza, pur non identificandosi connessa. Infatti, qualunque finalità voglia perseguirsi con l’impresa, non può negarsi l’esigenza di applicazione di buone regole di gestione dell’attività, che contrastano assiomaticamente con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate, non in rapporto all’esito del costo ma in relazione al rischio d’impresa. Ai fini della deducibilità del costo occorre, dunque, dimostrare l’utilità del servizio remunerato.
Per la quinta sezione civile, nel caso in esame, il giudice d’appello ha correttamente ritenuto incompatibile i costi di pubblicità con i presupposti dell’inerenza, sia in riferimento alla loro congruità, sia con riguardo alle utilità, ancorché solo potenziali, all’attività commerciale esercitata dalla società contribuente.
Legittimo dunque il recupero dell’amministrazione finanziaria che, a fondamento dell’atto impositivo, aveva considerato che la società aveva destinato l’importo di 140mila euro per spese di pubblicità, presumibilmente indirizzata ad un pubblico di nicchia (appassionati di arte), lontano dalla comune clientela della contribuente (esercente attività di commercio di prodotti ittici). Inoltre è legittimo considerare irragionevole che la contribuente, per quel tipo di pubblicità, spendesse il 39% dei ricavi complessivi fino ad arrivare a chiudere il bilancio in perdita.

Ulteriori osservazioni
Secondo la pronuncia in commento, in tema di inerenza dei costi, l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo, intesi evidentemente nella loro esclusività, non vuol significare che essi siano del tutto estranei al giudizio di valore, cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza, e dunque dei presupposti per la sua deducibilità. Qualunque sia il concetto di impresa, anche nelle teorie più socialmente orientate a svilirne finalità di utile economico, e qualunque finalità voglia perseguirsi con l’impresa, non può certo negarsi l’esigenza di applicazione di buone regole di gestione dell’attività, che contrastano con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate – tali ovviamente non in rapporto all’esito del costo ma secondo un giudizio prognostico a monte, dovendosi altrimenti negare il rischio d’impresa. Ciò perché è agevole ipotizzare che spese incongrue o svantaggiose conducano alla mala gestione dell’impresa, e da ultimo alla sua crisi e cessazione, per cui i criteri, apparentemente estromessi, tornano ad assumere indirettamente rilevanza, come d’altronde evidenzia quello stesso innovativo orientamento, che infatti nella parte conclusiva dello sviluppo argomentativo afferma che «l’antieconomicità e l’incongruità della spesa sono indici rivelativi della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa».
A supporto di tale orientamento si segnala anche Cassazione n. 5162/2020. Nel caso specifico la pronuncia concorda con le valutazioni operate dalla Ctr che aveva provveduto a comparare i costi sostenuti per la sponsorizzazione, con quelli sostenuti per prestazioni analoghe da altre società dello stesso settore (ovvero quello delle gare automobilistiche) che versavano corrispettivi molto più contenuti. Inoltre era stato valorizzato il fatto che nel caso di specie era lo stesso presidente del consiglio di amministrazione della società controllata a comporre la squadra di piloti della scuderia che sponsorizzava il marchio.
Tali elementi denunciavano una sproporzione del tutto irragionevole, che non poteva certo trovare giustificazione nel volume d’affari della società, come correttamente e logicamente affermato dai giudici regionali, alla luce di elementi presuntivi e non di valutazione equitativa.

Sul punto si ricorda un precedente conforme della giurisprudenza di merito secondo cui non è inerente in quanto antieconomica la spesa per sponsorizzazione effettuata nel settore del calcio a cinque di importo notevolmente superiore anche a quanto si spende per omologhe squadre di calcio a undici. Inoltre il ristretto ambito locale e lo scarso numero di spettatori raggiungibile dal messaggio pubblicitario non giustificano tali costi (Ctr Lazio, sentenza n. 3030/2016).
Secondo i giudici la finalità di un imprenditore è quella di massimizzare l’utile ottimizzando i costi: nel caso di specie i costi per sponsorizzazione apparivano sproporzionati rispetto ai redditi conseguiti, pari nell’anno a soli 17 mila euro, e addirittura negativi l’anno successivo.

Da ultimo, secondo la Ctr, si deve avere anche riguardo allo scarso numero di potenziale clientela raggiungibile dal messaggio pubblicitario, soprattutto in ragione del ristretto ambito locale in cui l’attività sponsorizzata si svolge.



Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale