15 Ago L’amministratore di fatto non può impugnare l’avviso alla Sc
L’amministratore di fatto non è legittimato a impugnare l’atto impositivo emesso a carico di una società di capitali, in quanto privo dell’interesse concreto e attuale ad agire previsto dall’articolo 100 del codice di procedura civile. Le società di capitali, infatti, godono di un’autonomia patrimoniale perfetta, per la quale l’attività svolta è imputabile direttamente ed esclusivamente a esse.
L’amministratore di fatto, quindi, potrà impugnare solo gli atti di riscossione allo stesso indirizzati e notificati, in quanto potenzialmente lesivi della sua situazione patrimoniale.
È quanto ha stabilito, in tema di accertamento fiscale e interesse ad agire in giudizio, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, con la decisione n. 586 del 22 giugno 2023, attraverso la quale ha accolto le tesi dell’Amministrazione finanziaria e confermato l’inammissibilità del ricorso presentato dal contribuente, già dichiarata in primo grado, per carenza di interesse ad agire.
Il caso
L’Agenzia delle entrate emetteva una serie di avvisi di accertamento nei confronti di diverse società, qualificando il contribuente quale amministratore di fatto e socio occulto delle imprese stesse.
Il soggetto, reputato dal fisco quale amministratore di fatto, impugnava, in proprio, gli atti impositivi dinanzi la competente Corte di giustizia tributaria di primo grado di Grosseto, contestando la presunzione dell’ufficio secondo la quale egli sarebbe stato amministratore di fatto e socio occulto delle imprese oggetto di accertamento nonché, conseguentemente, la legittimità e fondatezza degli avvisi di accertamento impugnati.
I giudici tributari di primo grado dichiaravano inammissibile il ricorso proposto dal contribuente, non rilevando, in capo a quest’ultimo, un sufficiente interesse ad agire ai sensi dell’articolo 100 del codice di procedura civile.
Il contribuente decideva, quindi, di proporre appello dinanzi la competente Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, appello avverso il quale l’Agenzia resisteva chiedendo il rigetto dello stesso e la condanna del contribuente alla refusione di tutte le spese di giudizio.
L’articolo 100 e l’interesse ad agire
L’articolo 100 del codice di procedura civile recita testualmente che “per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”.
L’interesse ad agire può, quindi, essere definito quale interesse al conseguimento di un’utilità o di un vantaggio non ottenibile senza l’intervento del giudice. L’interesse ad agire deve essere:
- personale, nel senso che il risultato vantaggioso deve riguardare direttamente il soggetto che agisce
- attuale, nel senso che deve sussistere al momento in cui si propone la domanda
- e infine, concreto, ovvero deve essere valutato con riferimento a un pregiudizio concretamente verificatosi ai danni del soggetto che esercita l’azione.
L’interesse ad agire assume, dunque, la qualifica di condizione all’azione, che deve necessariamente sussistere in ogni tipo di azione, ma in ciascuna con una diversa rilevanza pratica. Ad esempio, con riferimento alle azioni di accertamento, le quali tendono a eliminare una situazione di incertezza, obiettiva e pregiudizievole, relativamente all’esistenza di un rapporto giuridico o alla esatta portata di una serie di diritti e obblighi, l’interesse ad agire acquista il significato di vero e proprio limite di ammissibilità, poiché in tale ambito è necessario, che la situazione di incertezza relativa al rapporto giuridico determini il pericolo attuale di una lesione del diritto di colui che invoca tutela.
L’assenza di interesse ad agire è rilevabile, non solo su istanza di parte ma anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, in quanto tale interesse costituisce un requisito per la trattazione del merito della domanda, al fine di evitare un’inutile attività processuale.
La decisione
Chiamati a pronunciarsi definitivamente nel merito della questione, i giudici tributari toscani hanno dato ragione all’Amministrazione finanziaria, respingendo l’appello del contribuente.
Richiamando anche alcuni arresti sull’argomento della suprema Corte di Cassazione (come ad esempio, la sentenza n. 26491/2014 o le precedenti nn. 1100/2013 e 9282/2012), i magistrati di Firenze hanno chiarito come, nell’ipotesi in cui il soggetto passivo dell’avviso di accertamento sia la società e l’atto impositivo sia stato soltanto notificato al suo amministratore di fatto, quest’ultimo non può ricorrere innanzi alla Corte di giustizia tributaria in proprio e non quale legale rappresentante della società, con motivi di censura inerenti, tra l’altro, non l’atto impositivo in sé, ma la qualità, a lui attribuita in sede di notifica dell’atto, di amministratore di fatto della società medesima.
Il rappresentante di una società, legale o di fatto che sia, hanno proseguito i giudici tributari di appello, non ha, infatti, un apprezzabile interesse giuridico ad agire in giudizio per impugnare l’avviso di accertamento emesso non nei suoi confronti, bensì a carico della società.
Come, infatti, visto poc’anzi, l’interesse legittimo, per poter assurgere a condizione minima in grado di azionare validamente una tutela in giudizio, deve essere personale, attuale e concreto, ovvero effettivo. E nel caso di avviso di accertamento spiegato nei confronti di una società, ciò che difetta è l’interesse immediato del rappresentante legale o del socio a impugnare, in proprio, l’atto impositivo, considerato che un effettivo interesse all’impugnazione potrà sorgere solo in un momento successivo, ovverosia quando verrà notificato l’atto di riscossione.
Quindi, i magistrati di merito toscani hanno ribadito che “è dunque opinione dominante della giurisprudenza quella secondo cui l’accertamento notificato per conoscenza all’amministratore di fatto di una società a responsabilità limitata non è da questi impugnabile, per carenza di interesse ad agire previsto dall’art. 100 del codice di procedura civile, atteso che quest’ultimo deve scaturire da un fatto lesivo del diritto tale per cui senza processo ed esercizio della giurisprudenza l’attore soffrirebbe un danno”.
Ecco, dunque, che in ossequio al concreto interesse ad agire, di cui al ricordato articolo 100 cpc, l’amministratore di fatto non è legittimato a impugnare l’atto impositivo emesso a carico della società, ma esclusivamente gli atti di riscossione a lui notificati in un secondo momento. Caratteristica, infatti, delle società di capitali è l’autonomia patrimoniale perfetta, che fa sì che siano imputabili alla sola società tutte le attività svolta in suo nome, ivi comprese le obbligazioni tributarie che da dette attività discendono.
In ultimo, i magistrati tributari fiorentini hanno confutato l’affermazione del contribuente secondo la quale se egli non avesse impugnato gli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società, lui stesso sarebbe rimasto privo di tutela giurisdizionale. Ciò non corrisponde al vero, hanno chiarito i giudici, proprio perché il contribuente è pienamente legittimato a impugnare tutti gli atti di riscossione eseguiti a suo danno.
Per tutto questo, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, definitivamente pronunciandosi nel merito della controversia sottoposta al suo esame, ha rigettato l’appello del contribuente, confermando in pieno la sentenza di inammissibilità pronunciata in primo grado e condannando, per di più, lo stesso contribuente a sopportare e rifondere tutte le spese di giudizio, liquidate in oltre ventimila euro.
Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale