13 Dic Cessione di ramo d’azienda: no all’escussione del fallito
L’obbligo di preventiva escussione del cedente, in caso di responsabilità solidale del cessionario di ramo d’azienda, non si applica nei confronti del cedente dichiarato fallito. È quanto ha stabilito, accogliendo le tesi del Fisco e respingendo l’appello del contribuente, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Abruzzo con la sentenza n. 668 dell’11 settembre 2023.
Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto legittima la mancata preventiva escussione della società cedente dichiarata fallita da parte dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’articolo 51 della legge fallimentare, secondo il quale nessuna azione esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento.
Con la stessa pronuncia, i giudici tributari hanno chiarito che se il cessionario non ha richiesto all’Amministrazione finanziaria la certificazione relativa a eventuali contestazioni in corso e a quelle già definite, per le quali i debiti tributari non sono stati soddisfatti, non può eccepire poi, all’Agente della riscossione, la preventiva escussione del cedente, essendo un proprio onere quello di richiedere all’Amministrazione la certificazione circa la regolarità fiscale del soggetto cedente.
Il caso, il ricorso in primo grado e l’appello
Con atto notarile del 2015 veniva realizzata la cessione di un ramo d’azienda tra due società.
Nel 2019, alla cessionaria, veniva notificata un’ingiunzione di pagamento relativa a un atto di accertamento antecedente alla cessione societaria, nella sua qualità di responsabile solidale del debito erariale maturato dalla cedente (articolo 14, commi 1 e 2, del Dlgs n. 472/1997).
La norma ora citata prevede, al comma 1, che il cessionario è responsabile in solido, fatto salvo il beneficio della preventiva escussione del cedente ed entro i limiti del valore dell’azienda o del ramo d’azienda, per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo, anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore. Il successivo comma 2 dispone, poi, che l’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accertamento dei tributi di loro competenza.
La società impugnava l’atto impositivo dinanzi la competente Corte di giustizia tributaria di primo grado, eccependo l’illegittimità dello stesso per violazione dell’obbligo della preventiva escussione del debitore principale, ovvero della società cedente, evidenziando come, a suo avviso, l’Agente della riscossione non avesse alcun potere d’iniziativa in relazione all’individuazione del soggetto passivo, dovendosi limitare a procedere alla previa escussione della società cedente.
L’Agenzia delle entrate-Riscossione si difendeva in giudizio, sostenendo come in capo al cessionario vi fossero tutti i presupposti giuridici per la configurazione della propria responsabilità, in quanto il valore della cessione societaria era superiore al debito tributario e l’iscrizione a ruolo aveva come anno di riferimento il 2014, ossia l’anno precedente alla cessione del ramo d’azienda, sostenendo, infine, come nel caso concreto non fosse necessario esperire la preventiva infruttuosa escussione del debitore principale, in quanto lo stesso era stato dichiarato fallito con apposita sentenza del Tribunale di Pescara.
Chiamati a pronunciarsi in merito, i magistrati tributari di primo grado respingevano il ricorso della contribuente, ritenendolo infondato in punto di diritto.
A giudizio della Corte di prime cure, infatti, deve escludersi la nullità della cartella “per il sol fatto che l’emissione della stessa e l’iscrizione a ruolo non siano stati preceduti dalla preventiva escussione del cedente del ramo di azienda”, ritenendo inutile la dimostrazione dell’escussione da parte dell’Agente della riscossione, in quanto la società cedente era stata dichiarata fallita con sentenza del Tribunale in data antecedente alla notifica dell’intimazione di pagamento.
I giudici hanno chiarito, poi, richiamando sul punto la decisione della Corte di cassazione n. 14759/2021, come l’articolo 14 del Dlgs n. 472/1997 deroghi a quanto previsto dall’articolo 2560 cc (secondo il quale, l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno acconsentito) in quanto tende proprio a evitare che la cessione faccia disperdere la garanzia patrimoniale del contribuente in relazione all’interesse pubblico, per le imposte e le sanzioni già irrogate e contestate nel medesimo periodo, anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore e sempre che risultino dagli atti dell’ufficio.
Avverso tale decisione, la società contribuente proponeva appello dinanzi ai giudici tributari di secondo grado lamentando nuovamente l’illegittimità dell’atto impositivo per la violazione dell’articolo 14 del Dlgs n. 472/1997, prevedente l’obbligo della preventiva escussione del debitore principale.
La decisione dei giudici tributari di appello
Con la sentenza n. 668 dell’11 settembre 2023, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Abruzzo, sposando le tesi dell’Amministrazione finanziaria, ha respinto l’appello della società.
In primo luogo, i giudici abruzzesi hanno chiarito come, nel caso in esame, sia effettivamente da ravvisare l’esistenza della solidarietà tra cedente e cessionario e come la cartella di pagamento sia stata notificata nel 2018 mentre l’intimazione è del settembre del 2019, e come, nelle more dell’azione amministrativa, il cedente, dopo un periodo di concordato preventivo, sia stato dichiarato fallito nel giugno del 2019.
I magistrati aquilani hanno, poi, evidenziato come il cessionario non abbia richiesto all’Amministrazione la certificazione avente per oggetto eventuali contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti tributari non sono stati soddisfatti relativamente ai periodi d’imposta 2015 (anno di cessione) e ai due precedenti prima della conclusione del negozio traslativo, tenendo conto che il debito in contestazione è riferibile al periodo d’imposta 2014.
È, infatti, un preciso onere del cessionario quello di richiedere all’Amministrazione la certificazione circa la regolarità fiscale del soggetto cedente. Un onere che il cessionario avrebbe tutto l’interesse di porre in essere, considerato che la certificazione negativa dell’Amministrazione finanziaria ha, e avrebbe avuto pieno effetto liberatorio del cessionario stesso, ponendolo al riparo da ogni eventuale azione di recupero da parte del Fisco per la prevista solidarietà tributaria tra cedente e cessionario.
Per quanto concerne, poi, la doglianza della società contribuente circa la violazione del beneficium excussionis, per non aver l’Agente della riscossione aggredito previamente il patrimonio dell’impresa cedente, la Corte di secondo grado ha rilevato come l’Agenzia entrate-Riscossione abbia operato correttamente secondo diritto, in quanto, ai sensi dell’articolo 51 della legge fallimentare, non è possibile effettuare alcuna attività esecutiva nei confronti della società fallita. La norma prevede, infatti, che, salvo diversa disposizione della legge, dal giorno della dichiarazione di fallimento, nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, anche per crediti maturati durante il fallimento, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento.
Quindi, il presupposto della preventiva escussione, hanno chiarito i magistrati abruzzesi, risultava superato dalla declaratoria fallimentare del cedente, nei confronti del quale non potevano essere azionate attività giudiziarie di esecuzione.
L’atto impositivo del Fisco risultava poi legittimo anche sotto il profilo dell’entità della pretesa erariale pari a poco meno di 50mila euro, considerando che il valore di cessione del ramo di azienda è stato proprio di 50mila euro.
Dunque, definitivamente pronunciandosi, la Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Abruzzo ha confermato la sentenza di primo grado, chiarendo che se il cessionario non ha richiesto all’Amministrazione finanziaria la certificazione avente per oggetto eventuali contestazioni in corso e quelle già definite, per le quali i debiti tributari non sono stati soddisfatti, non può eccepire poi all’Agente della riscossione la preventiva escussione del cedente.
D’altra parte, hanno concluso i giudici, il cessionario ben può chiedere al cedente stesso se è gravato da eventuali debiti tributari, disciplinandone così la regolamentazione nell’atto di cessione e ricorrendo, nel caso di fallimento del cedente con conseguente impossibilità di iniziare o proseguire nei suoi confronti azioni esecutive ai sensi dell’articolo 51 della legge fallimentare, la possibilità di inserirsi in sede fallimentare per quanto eventualmente pagato per conto del cedente stesso per il debito tributario occultato.
Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale