02 Feb Interposizione fittizia provata: solo l’accertato può smontarla
Se l’Amministrazione finanziaria fornisce la prova, che un soggetto è l’effettivo possessore, per interposta persona, di un reddito di cui appare titolare una società, può notificare l’atto di accertamento anche nei confronti dell’effettivo possessore. Sarà onere di quest’ultimo attivarsi per fornire la prova contraria, dell’assenza dell’interposizione. Questo principio è stato affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 33457 del 30 novembre 2023.
Alla base della vicenda giudiziaria, vi è un avviso di accertamento che l’Amministrazione finanziaria ha notificato a due persone fisiche, avvalendosi del disposto dell’articolo 37 del Dpr n. 600/1973.
Questa disposizione stabilisce che: “in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”.
Nel caso al vaglio era emerso che una srl aveva partecipato a un disegno criminoso, unitamente ad altre imprese, al fine di usufruire di indebite compensazioni in ambito Iva.
Il relativo avviso di accertamento è stato notificato, sulla base della norma sopra indicata, anche nei confronti di due persone fisiche, socie di una srl, che, a sua volta era titolare di una quota di partecipazione nella società che aveva goduto della indebita compensazione Iva.
I destinatari dell’atto di accertamento hanno presentato ricorso in Commissione tributaria, ritenendo di non aver alcun collegamento diretto con la società che aveva commesso la violazione tributaria, soprattutto in considerazione del fatto che avevano ceduto le quote di detta società in data anteriore rispetto a quella in cui era stato commesso l’illecito.
La loro tesi è stata, però, respinta, sia dalla Ctp di Roma (decisione n. 10455/2015) che dalla Ctr del Lazio (decisione n. 6092/2016).
I giudici tributari hanno, tra l’altro, evidenziato che il soggetto che aveva acquistato le quote sociali dai contribuenti destinatari dell’atto di accertamento era, in realtà, un mero prestanome, scelto da loro stessi. Pertanto, doveva ritenersi che la gestione della società era ancora nelle mani dei due cessionari.
Anche sulla base di questa circostanza, l’ufficio ha ritenuto che i due cessionari dovevano essere considerati come “…interponenti nel meccanismo fraudolento e possessori effettivi dei proventi dell’attività illecita della società…”.
Di conseguenza, l’imposta sul valore aggiunto, evasa dalla società, costituiva un componente positivo di reddito per i due contribuenti, soci della società che controllava la srl che aveva commesso la violazione.
La Corte di cassazione ha condiviso la ricostruzione operata dall’ufficio, richiamando il proprio orientamento in tema di sanzioni a carico dell’amministratore di fatto e ribadendo che, se il rappresentante o l’amministratore di società dotata di personalità giuridica ha agito nel proprio interesse, utilizzando l’ente come strumento per sottrarsi alle conseguenze dell’illecito tributario commesso, la sanzione amministrativa pecuniaria deve colpire anche la persona fisica autrice dell’illecito.
In particolare, in motivazione, è stata richiamata la sentenza, della stessa Corte, n. 23231/2022, con la quale erano stati espressi i seguenti principi:
- in tema di accertamento (imposte dirette e Iva), nei confronti di un soggetto che abbia gestito una società di capitali, si determina la traslazione del reddito d’impresa e delle relative imposte, in quanto effettivo possessore del reddito della società interposta
- in tal caso, tra i due soggetti, si instaura un rapporto di mandato senza rappresentanza e pertanto, le prestazioni di servizi alle quali ha partecipato il mandatario per conto della società, restano soggette a Iva
- sull’Amministrazione finanziaria incombe, anche solo in via indiziaria, l’onere di provare l’asservimento della società interposta all’interponente
- sul contribuente grava l’onere di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione o della mancata percezione del reddito della società.
Con riferimento al caso specifico, i giudici della suprema Corte hanno ritenuto che l’Amministrazione avesse fornito la prova che:
- sussisteva una relazione tra i contribuenti (interponenti) e la fonte del reddito imputato alla società
- i due contribuenti erano effettivi possessori dei redditi intestai, solo formalmente, alla società.
Ciò, sulla base del richiamato articolo 37, la cui funzione è quella di evitare che il contribuente, effettivo possessore di un reddito, si sottragga al prelievo, occultando all’Amministrazione finanziaria la propria identità di contribuente, ricorrendo a interposizioni negoziali tali da attribuire a terzi il possesso del reddito.
In pratica, come indicato nella sentenza in esame, “…la rilevanza dell’effettivo possesso del reddito rispetto alla sua titolarità formale sancisce la prevalenza della sostanza (possesso del reddito) sulla forma (titolarità del reddito) e della realtà sull’apparenza”.
Considerato che, nel caso specifico, l’Amministrazione aveva provato, attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, la distribuzione ai soci degli utili accertati in capo alla società e che i soci non avevano fornito la prova contraria, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso dei contribuenti, ritenendo legittimo l’operato dell’ufficio.
Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale