06 Feb No alle agevolazioni prima casa, l’abitazione, per legge, è di lusso
Per individuare le caratteristiche di lusso riferite all’estensione della superficie dell’immobile, la norma di riferimento è quella che indica come di lusso le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a 240 mq. Il rapporto con la superficie esterna vale solo quando l’area dell’abitazione è inferiore a tale soglia, ma supera i 200 mq.
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 33699 del 4 dicembre 2023, si è pronunciata sulla disciplina (vigente “ratione temporis”) relativa alle agevolazioni prima casa, in base alla quale le abitazioni di lusso, come risultanti dalle caratteristiche previste dal Dm 2 agosto 1969, non ne potevano beneficiare.
A oggi, per effetto delle modifiche introdotte dall’articolo 10 del Dlgs n. 23/2011, in vigore dal 1° gennaio 2014, le agevolazioni non spettano per il trasferimento di case di abitazioni appartenenti alle categorie catastali A1, A8 e A9, non essendo più richiesta, ai fini della mancata concessione dei benefici fiscali, la sussistenza delle caratteristiche elencate nel Dm.
La Corte, nel respingere il ricorso del contribuente, fornisce altresì dei chiarimenti in merito al rapporto esistente tra le disposizioni recate dagli articoli 5 e 6 del decreto ministeriale.
I giudici di legittimità affrontano, inoltre, il tema dell’applicazione delle regole del contraddittorio endoprocedimentale ai fini dell’imposta di registro.
Entrando nel merito della controversia, con avviso di liquidazione l’Agenzia delle entrate ha revocato, a un contribuente, l’agevolazione fiscale prima casa, ai fini dell’imposta di registro, per l’acquisto di un immobile destinato a civile abitazione, in quanto l’ufficio aveva accertato che l’unità immobiliare risultava avere le caratteristiche di abitazione di lusso, ai sensi degli articoli 5 e 6 del Dm n. 1072/1969.
In Corte di cassazione, il contribuente lamentava la violazione degli articoli 10 e 12, comma 7, della legge n. 212/2000, nella parte in cui la Commissione regionale aveva ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione impugnato, nonostante fosse stato emesso dall’Agenzia delle entrate senza la previa instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale.
Inoltre, con ulteriore motivo, il contribuente lamentava la violazione degli articoli 5 e 6 del Dm n. 1072/1969, per aver il giudice d’appello ritenuto che l’immobile oggetto di accertamento fosse un’abitazione “di lusso” e, in quanto tale, esclusa dalle agevolazioni fiscali “prima casa” (articolo 1 della Tariffa, Parte prima, allegata al Testo Unico dell’imposta di registro), reputando che fosse stata contestata, per negare l’agevolazione, solo la sussistenza del requisito richiesto dall’articolo 5 del Dm (vale a dire la presenza di una superfice utile complessiva superiore a 200 mq e, come pertinenza, di un’area scoperta della superfice di oltre sei volte l’area coperta) e non anche quella del successivo articolo 6 (ossia la presenza di una superfice utile complessiva superiore a 240 mq).
La Cassazione ha respinto il ricorso del contribuente sulla base delle seguenti motivazioni.
Come chiarito dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 47 del 21 marzo 2023, la giurisprudenza di legittimità, consolidatasi a seguito della sentenza a sezioni unite civili n. 24823/2015, ha interpretato il diritto nazionale, nel senso che non pone in capo all’Amministrazione fiscale, che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, che comporti, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto, escludendo, pertanto, che possa attribuirsi valenza generale alla previsione dell’articolo 12, comma 7, dello statuto del contribuente, in quanto tale disposizione va delimitata ai soli accertamenti conseguenziali ad accessi, ispezioni e verifiche presso i luoghi di riferimento del contribuente, senza che possa estendersi anche alle verifiche “a tavolino”.
La Corte costituzionale, pur riconoscendo che la mancata generalizzazione del contraddittorio preventivo con il contribuente risulta ormai non in sintonia con l’evoluzione del sistema tributario, avvenuta sia a livello normativo che giurisprudenziale, ha evidenziato che dalla pluralità di moduli procedimentali legislativamente previsti e dal loro ambito applicativo, emerge la varietà e la frammentarietà delle norme che disciplinano l’istituto e la difficoltà di assumere una di esse a modello generale, osservando che il principio di partecipazione procedimentale del contribuente, ancorché esprima una esigenza di carattere costituzionale, non può essere esteso in via generale tramite una sentenza della Consulta.
Pertanto, la Corte costituzionale ha ritenuto che di fronte alla molteplicità di strutture e di forme che il contraddittorio endoprocedimentale ha assunto e può assumere in ambito tributario, spetta al legislatore, nel rispetto dei principi costituzionali evidenziati, il compito di adeguare il diritto vigente, scegliendo tra diverse possibili opzioni che tengano conto e bilancino i differenti interessi in gioco, in particolare assegnando adeguato rilievo al contraddittorio con i contribuenti.
Quindi, resta fermo che, con riguardo all’imposta di registro e in assenza di una specifica previsione di legge, l’amministrazione finanziaria non ha alcun obbligo di instaurare un contraddittorio preventivo con il contribuente prima dell’emanazione dell’avviso di rettifica e liquidazione, limitandosi la sua funzione alla valutazione della rilevanza fiscale dell’atto negoziale o giudiziale, al momento della registrazione su richiesta o d’ufficio, mediante la determinazione della base imponibile, l’applicazione dell’imposta nella misura (fissa o proporzionale) stabilita in base alle previsioni della Tariffa corrispondenti alla tipizzazione delle fattispecie negoziali e il recupero dell’imposta non versata o versata in misura inferiore all’importo dovuto.
La suprema Corte ritiene, inoltre, infondato l’ulteriore motivo, con il quale il contribuente ha lamentato l’insussistenza della seconda condizione di cui all’articolo 5 del Dm n. 1072/1969, costituita dal rapporto tra superfice coperta e scoperta.
La Cassazione, sul punto, ha ribadito, ai fini dell’individuazione delle caratteristiche delle abitazioni di lusso, che il richiamato articolo 5 considera(va) le case composte di uno o più vani costituenti unico alloggio padronale aventi superficie utile complessiva superiore a 200 mq (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e i posti macchine) e aventi come pertinenza un’area scoperta della superficie di oltre sei volte l’area coperta, precisando che il rapporto tra la superficie dell’area scoperta e quella dell’area coperta, se al sestuplo, comportava la qualificazione come di “lusso” dell’immobile e, quindi, l’esclusione dei benefici tributari per l’acquisto della prima casa.
Ha altresì precisato che l’articolo 6 dello stesso Dm considera(va) immobili di lusso le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a 240 mq (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e i posti macchine).
Quanto al rapporto tra le due enunciate diposizioni, la Corte ha chiarito, che la norma base di riferimento per individuare le caratteristiche di lusso riferite all’estensione della superficie dell’immobile è costituita dall’articolo 6, applicabile (indistintamente) ad appartamenti compresi in fabbricati condominiali o a singole unità abitative e che non è contraddetta da quella di cui al precedente articolo 5 in quanto la “dimensione dell’area scoperta (in rapporto pertinenziale con l’alloggio padronale) assume rilievo se e in quanto la o le unità immobiliari (che compongano l’alloggio) abbiano (singolarmente considerate) un’area coperta di superficie inferiore a 240 mq.
Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale