14 Giu Lavoro in proprio dopo il fallimento, avviso di accertamento legittimo
Per il contribuente già dichiarato fallito, che ha continuato a esercitare l’attività in proprio ai sensi dell’articolo 46 della vecchia legge fallimentare, va esclusa la perdita della capacità processuale e della legittimazione in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo. Lo ha affermato la Cassazione, con sentenza n. 11351 del 29 apirle 2024, con cui ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate
La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
Il contribuente, già dichiarato fallito unitamente alla snc, ha impugnato in proprio, innanzi alla Ctp, l’avviso di accertamento con il quale era stato recuperato a tassazione, ai fini Irpef, un maggior reddito in ragione di operazioni bancarie ritenute non giustificate, operate sul suo conto corrente personale successivamente alla data del fallimento. La Ctp ha dichiarato la nullità dell’avviso di accertamento perché non notificato al curatore, stante la mancanza di capacità processuale del fallito: ha rilevato, sul punto, che la procedura concorsuale era ancora pendente e che, di conseguenza, non vi era questione di redditi di esclusiva natura personale del fallito non essendo ipotizzabile un’attività parallela al di fuori della procedura.
La Ctr ha rigettato l’impugnazione rilevando che al momento della notifica dell’avviso di accertamento il contribuente era stato già dichiarato fallito e l’avviso di accertamento non era stato notificato al curatore. Ha quindi evidenziato che, a seguito del fallimento, tutti i beni pervenuti al contribuente in corso di procedura, erano ricompresi nell’attivo fallimentare sicché la rappresentanza processuale spettava al solo curatore.
La controversia è così giunta in Cassazione dove l’Agenzia delle entrate ha contestato la decisione per avere ritenuto inefficace la notifica dell’avviso di accertamento al contribuente affermando la perdita della sua capacità processuale ed escludendo in radice la possibilità da parte di quest’ultimo di svolgere attività personale.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso dell’ufficio, ha affermato che l’esercizio di un’attività in proprio da parte del fallito, diversamente da quanto sostenuto nella sentenza impugnata, non è astrattamente precluso, come desumibile dall’articolo 46 della legge fallimentare, che, nell’elencare i beni esclusi dal fallimento, fa espressamente riferimento a quanto il fallito guadagna con la sua attività, se pure nei limiti di quanto necessario al mantenimento suo e della famiglia. Infatti, l’effetto dello spossessamento del fallito non è totale in quanto non opera, non solo con riguardo alle posizioni di natura strettamente personale del debitore, ma nemmeno per quelle non apprese al concorso, sicché anche l’incapacità processuale del fallito, come prevista dall’articolo 43 della legge fallimentare, non è priva di eccezioni (sezioni unite n. 11287/2023).
Ne consegue che, nell’ipotesi in cui l’accertamento colpisca redditi generati dall’attività svolta dal fallito successivamente alla dichiarazione di fallimento, sussiste la legittimazione di quest’ultimo a impugnare l’atto impositivo. Pertanto, ha concluso la Cassazione, il ricorso deve essere accolto con affermazione del principio di diritto secondo cui “in caso di rapporto d’imposta i cui presupposti si siano formati dopo la dichiarazione di fallimento, sull’assunto che il contribuente dichiarato fallito abbia continuato a svolgere attività in proprio, sussiste la legittimazione di quest’ultimo in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo”.
Ulteriori osservazioni
Sul punto si ricorda che le sezioni unite, chiamate a pronunciarsi sulla legittimazione processuale del fallito, hanno riconosciuto la legittimazione processuale del fallito nell’impugnazione dell’accertamento fiscale se la curatela rimanga inerte, a prescindere dal motivo. A patto che i presupposti del rapporto d’imposta si siano formati prima della dichiarazione d’insolvenza e che l’organo concorsuale resti inerte, al di là della consapevolezza e della volontà che determinano la condotta. Ma se il curatore non resta inattivo, il contribuente non è legittimato a impugnare e il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di capacità processuale in ogni stato e grado del procedimento (sezioni unite n. 11287/2023).
I giudici di legittimità si sono pronunciati su due questioni rimesse da un’ordinanza interlocutoria della Cassazione: 1) la legittimazione straordinaria del fallito sia a fronte della mera inerzia del curatore, sia ove questa sia il frutto di una valutazione ponderata da parte degli organi concorsuali; 2) in caso di ricorso del curatore, la rilevabilità d’ufficio dell’eccezione del difetto di legittimazione processuale del fallito.
Sulla prima questione i giudici hanno precisato che dall’articolo 43 legge fallimentare si ricava in modo implicito che il fallito può agire in giudizio su rapporti patrimoniali se non compresi nel fallimento in linea di diritto o di fatto. E basta l’inerzia pura e semplice del curatore, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinata: altrimenti servirebbero accertamenti di fatto troppo complessi.
In relazione alla seconda questione, le sezioni unite hanno stabilito che qualora il curatore non rimanga inerte, bensì impugni l’atto impositivo inerente a crediti tributari i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, non consta alcun residuo interesse del fallito a dolersi dell’omessa notifica dell’avviso di accertamento al fine di contestarlo, con eccezione rilevabile anche d’ufficio dal giudice, in ogni stato e grado del giudizio.
Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale