
09 Lug Frode Iva, la responsabilità si misura su partecipazione e consapevolezza
Con l’ordinanza n. 15722 del 12 giugno 2025 la Corte di cassazione riafferma un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità e comunitaria in materia di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti: sottolinea l’importanza di distinguere tra la prova della partecipazione del contribuente alla frode e la prova della sua consapevolezza (o conoscibilità, usando l’ordinaria diligenza) del carattere fraudolento dell’operazione.
Fatti di causa
L’Agenzia delle entrate – direzione provinciale di Palermo – notificava al contribuente un avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2015, rettificando la sua dichiarazione e disconoscendo l’Iva su fatture emesse da una società fornitrice, ritenute soggettivamente inesistenti.
Il contribuente impugnava l’avviso dinanzi alla Ctp di Palermo, che rigettava il ricorso.
Il contribuente proponeva appello alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, che lo accoglieva, condannando l’Agenzia alle spese di giudizio.
L’Amministrazione finanziaria proponeva ricorso per Cassazione.
Il contesto normativo
La normativa sulla detrazione dell’Iva assolta dai soggetti passivi sugli acquisti o sulle importazioni di beni e servizi nell’esercizio di attività economiche attua gli articoli 168 e seguenti della direttiva n. 2006/112/Ce. I soggetti passivi hanno in generale un diritto alla detrazione, che è disciplinato dagli articoli 19, 19-bis, 19-bis.1 e 19-bis.2, del Dpr n 633/1972 (decreto Iva).
Il diritto alla detrazione è escluso se viene esercitato in modo fraudolento o abusivo, ad esempio a seguito di operazioni inesistenti, anche soggettivamente, ovvero quando l’operazione avviene tra soggetti in tutto o in parte diversi da quelli indicati nella fattura (come nelle “frodi carosello”).
L’Iva addebitata per le cosiddette operazioni “soggettivamente inesistenti” (quando cioè l’operazione esiste ma il cedente o prestatore è un soggetto diverso da quello che ha fraudolentemente emesso la fattura), anche se è dovuta dall’emittente allo Stato, ai sensi dell’articolo 21 del decreto Iva, non può essere comunque detratta dal cessionario o committente, salvo che l’acquirente dimostri la propria buona fede e l’oggettiva impossibilità di conoscere la frode.
Ragioni della decisione della Cassazione
La Corte di legittimità, nella pronuncia in commento, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate, cassando la sentenza della Ctr con rinvio.
La motivazione si basa sul seguente principio di diritto “In caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione è tenuta a provare che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione IVA, senza che sia necessaria la prova della partecipazione all’evasione (v. Corte Giust. Bonik, C-285/11; Corte Giust, Ppuh, C277/14). Detta prova può, peraltro, ritenersi raggiunta – diversamente da quanto opinato dal giudice d’appello – anche qualora l’Amministrazione fornisca attendibili indizi, idonei ad integrare una presunzione semplice”.
E ancora “Una volta che l’Amministrazione abbia provato, in base ad elementi oggettivi, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto ed a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente, passa al contribuente medesimo l’onere di fornire la prova contraria.”
Questa pronuncia rappresenta un ulteriore, fondamentale tassello nel consolidamento della strategia di contrasto alle frodi Iva, in particolare quelle relative a operazioni soggettivamente inesistenti.
Inoltre, è importante anche alla luce di una recente pronuncia, l’ordinanza n. 14102 del 21 maggio 2024, molto valorizzata nei ricorsi dei contribuenti, in cui il Consesso supremo, sempre occupandosi di ripartizione dell’onere probatorio nell’ambito di una frode Iva, delineava il perimetro delle cautele richieste a un cessionario per escludere il suo coinvolgimento nell’ambito di una frode Iva, specificando che per l’assolvimento dell’onere probatorio della conoscenza o conoscibilità dell’acquirente al reato consumato dal fornitore, l’Amministrazione “non può richiedere al contribuente di effettuare verifiche complesse simili a quelli che l’amministrazione stessa può eseguire con i propri mezzi”.
Seppur non in netto contrasto con il precedente pronunciamento, con l’ordinanza n. 15722/2025 vengono riaffermati in modo chiaro e inequivocabile principi già espressi dalla giurisprudenza di legittimità e comunitaria. La Corte suprema ha cassato la sentenza della Ctr, la quale si era concentrata eccessivamente sull’assenza di una “compartecipazione alla frode” del contribuente, ignorando gli oneri probatori e i principi chiave in materia di Iva su operazioni inesistenti.
Il punto di forza di questa decisione risiede nella netta riaffermazione del cosiddetto “doppio onere probatorio”: onere dell’Amministrazione è dimostrare la fittizietà soggettiva del fornitore e la conoscenza (o conoscibilità) da parte del cessionario dell’inserimento dell’operazione in un’evasione Iva, anche tramite indizi e presunzioni; onere del Contribuente, qualora l’Amministrazione adempia al proprio onere, provare di aver agito con la massima diligenza per evitare il coinvolgimento nella frode, dimostrando di aver fatto tutto il possibile per verificare l’effettiva operatività del fornitore e la regolarità dell’operazione.
Il punto cruciale è che l’Amministrazione finanziaria non è tenuta a dimostrare una diretta “compartecipazione alla frode” del cessionario, ma piuttosto che quest’ultimo fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, che l’operazione si inseriva in un meccanismo di evasione fiscale. Tale prova può essere raggiunta anche per mezzo di presunzioni semplici, basate su elementi oggettivi e specifici che avrebbero dovuto allertare un operatore professionale accorto.
L’insistenza della Cassazione sulla “qualificata posizione professionale” del contribuente come fattore determinante per valutare la sua “ordinaria diligenza” è un altro aspetto fondamentale. Questo significa che da un operatore economico ci si attende un livello di attenzione e di verifica maggiore, proporzionato alla sua esperienza e al suo ruolo nel mercato.
Conclusione
Da parte dell’Agenzia, nella attività di verifica e accertamento, dunque, è fondamentale concentrare le indagini sull’identificazione di indizi attendibili e presunzioni semplici, che, pur senza richiedere la dimostrazione di un “accordo fraudolento” diretto con la compartecipazione del contribuente, siano sufficienti a spostare l’onere della prova sul contribuente stesso. Da parte di quest’ultimo, d’altro canto, è fondamentale dimostrare di aver adottato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto per non essere coinvolto nella frode, senza che abbiano rilievo la regolarità contabile, i pagamenti o la mancanza di benefici dalla rivendita.
Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale