Base ristretta e distribuzione utili il punto sulla presunzione del Fisco

Base ristretta e distribuzione utili il punto sulla presunzione del Fisco

La Corte suprema, con l’ordinanza n. 16041 del 16 giugno, torna a pronunciarsi su uno dei più consolidati strumenti presuntivi dell’Amministrazione finanziaria: la ristretta base societaria.

La decisione non solo conferma la piena legittimità dell’operato degli accertatori, ma fornisce anche un fondamentale chiarimento sulla natura della prova che il socio è tenuto a fornire per superare la presunzione di distribuzione degli utili.

Il caso
La vicenda trae origine da un accertamento induttivo, scaturito dalla totale assenza di scritture contabili presso una Srl. Una volta determinato il maggior reddito in capo alla società, l’ufficio ha proceduto a imputare pro quota gli utili extracontabili al socio unico amministratore. Il contribuente ha impugnato l’atto, sostenendo di aver fornito la prova della mancata percezione di tali somme attraverso la produzione degli estratti conto societari e personali, dai quali non emergevano flussi finanziari anomali a suo favore.

La decisione della Corte e il principio di diritto
La Corte ha rigettato integralmente il ricorso.

In un caso come questo, dove l’accertamento è induttivo a causa dell’assenza della contabilità, non basta al socio dimostrare che i soldi non sono finiti sul suo conto corrente.

Il punto focale della sentenza è proprio questo: la Cassazione afferma che “la prova a carico del contribuente avrebbe dovuto riguardare la destinazione non personale degli utili, non rilevando che essi non siano eventualmente transitati sul conto personale.

In sostanza, è onere del socio, che controlla la società, dimostrare dove siano finiti i maggiori profitti accertati. Se non sono stati distribuiti, devono essere stati necessariamente impiegati in altro modo, ad esempio reinvestiti nell’attività o accantonati in specifiche riserve. Provare semplicemente l’assenza di un bonifico a proprio nome è una difesa debole e, come conferma questa ordinanza, del tutto insufficiente a superare la presunzione legale.

Il razionale della presunzione: una massima d’esperienza
La logica che sottende questo approccio non è un mero automatismo, bensì una massima di esperienza fondata su un’analisi della realtà economica. In una compagine sociale ridotta, il controllo sulla gestione è capillare e reciproco. È altamente improbabile che l’amministratore possa occultare ricavi o gestire fondi neri all’insaputa degli altri soci. Il vincolo fiduciario e la comunanza di interessi rendono verosimile che i proventi non contabilizzati vengano, di fatto, ripartiti tra i membri della società.

Pertanto, una volta che l’ufficio ha validamente accertato un maggior reddito in capo alla società – ad esempio, per ricavi non fatturati o costi indeducibili – l’onere di provare la mancata distribuzione di tali utili si sposta sul contribuente. L’atto di accertamento nei confronti della società diventa il pilastro su cui si fonda, in via presuntiva, l’accertamento sul reddito di capitale dei singoli soci.

L’onere della prova a carico del socio
È fondamentale chiarire questo passaggio: si tratta di una presunzione legale iuris tantum, che ammette cioè la prova contraria. Tuttavia, tale prova non può consistere in una mera dichiarazione di non aver percepito alcunché. Il socio che intende superare la presunzione deve fornire elementi concreti, oggettivi e documentati.

Quali prove possono essere considerate valide? La giurisprudenza ha delineato alcuni scenari. Il socio potrebbe dimostrare, ad esempio, che i maggiori utili accertati sono stati reinvestiti nell’attività d’impresa o accantonati in apposite riserve patrimoniali. Un’altra via, seppur più complessa da percorrere, è quella di provare la propria totale estraneità alla gestione sociale, un’estraneità non solo formale ma sostanziale, che lo abbia reso di fatto impossibilitato a conoscere le vicende societarie e a beneficiare degli eventuali utili occulti. Irrilevante e inconferente, invece, è (come nel caso in commento) l’assenza di flussi finanziari dalla società partecipata alla sua sfera patrimoniale.

In conclusione, questa sentenza rafforza l’azione amministrativa contro i fenomeni di evasione più insidiosi e ribadisce un concetto chiave: di fronte a una gestione societaria oscura e non documentata, la responsabilità di fare chiarezza ricade interamente su chi quella gestione l’ha condotta.



Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale