No al cram down se la situazione si presenta ambigua e nebulosa

No al cram down se la situazione si presenta ambigua e nebulosa

Nell’ipotesi in cui vi siano criticità sulla conformità della proposta alla situazione reale il cram down non è applicabile, tanto più quando il debitore non fornisca una rappresentazione completa, veritiera e trasparente di tutte le informazioni e la contabilità non sia attendibile. È onere del debitore fornire tutte le informazioni necessarie e appropriate al fine di consentire al Tribunale un esercizio consapevole dell’istituto. In caso contrario, il Tribunale, a fronte di un dissenso concretamente motivato, non potrà comprimere i diritti del creditore pubblico.

Il Tribunale di Tivoli, con decreto del 4 aprile 2023 ha affermato considerazioni di rilievo in tema di cram down.
Nel caso specifico, la società, dopo aver premesso di esercitare attività commerciale e di versare in condizione di crisi determinata dalla contrazione delle vendite e aggravata dall’emergenza sanitaria Covid, aveva elaborato un piano, condizionato all’omologa, che si fondava essenzialmente sull’intervento di un soggetto terzo, che, tra l’altro, avrebbe fornito un apporto in denaro a fondo perduto, quale liquidità a sostegno della esdebitazione complessiva e a servizio della continuità aziendale, e garanzie fideiussorie personali sui flussi della continuità aziendale.

Si prevedeva poi il conferimento nella compagine di una partecipazione in altra società detentrice un impianto di distribuzione carburanti e il successivo affitto dell’impianto, con successiva (ri)vendita della medesima partecipazione.
La ricorrente proponeva, dunque, l’integrale pagamento dei creditori estranei (compresi gli enti previdenziali) e il riconoscimento all’Erario, nell’ambito della procedura di transazione fiscale, di una percentuale dei propri crediti pari al 15,3% del debito complessivo, con esecuzione del piano in circa tre anni.

Tenuto conto che l’adesione da parte degli enti impositori era determinante ai fini del raggiungimento della percentuale di cui all’articolo 57, comma 1, del Codice della crisi d’impresa (CCII), la società invocava l’omologa forzosa, pur in assenza di specifica adesione da parte dell’Erario, attesa la convenienza della proposta di soddisfacimento rispetto all’alternativa liquidatoria.
Il giudice rimetteva gli atti al Collegio ai fini della decisione sull’omologa.

Nelle more perveniva la comunicazione di rigetto della proposta di transazione da parte dell’Agenzia delle entrate, la quale motivava la mancata adesione evidenziando che:

  • la società aveva posto in essere atti di cessione di asset aziendali, non menzionati nella relazione dell’attestatore, il quale non aveva neppure considerato la possibilità di agire in revocatoria, né aveva tenuto conto che le reali cause della crisi erano da ricondurre proprio a tali dismissioni
  • le operazioni straordinarie e i soggetti in essi coinvolti denotavano inoltre un preciso disegno, finalizzato a trasferire i rami di azienda a società comunque riconducibili al nucleo familiare che controllava le società e ottenere così una consistente falcidia del debito erariale, evitando il fallimento
  • anche le società terze coinvolte nel piano apparivano asservite agli interessi di soggetti legati da vincoli di parentela con i soci della proponente
  • il conferimento della partecipazione nella società detentrice l’impianto di distribuzione, con successivo affitto, consentiva una continuità aziendale indiretta artificiosamente creata e destinata comunque a venire meno con la programmata vendita della stessa partecipazione
  • dall’esame delle poste contabili inserite nel bilancio emergeva la complessiva inattendibilità della contabilità della società proponente, per cui non sarebbe stato possibile per l’attestatore dichiarare la correttezza e veridicità dei dati aziendali, avendo lo stesso anche omesso di specificare le ragioni che avevano condotto la società a contabilizzare una variazione negativa dei crediti senza specificare i motivi ostativi alla loro riscossione
  • con specifico riferimento al possibile esperimento di azioni revocatorie e alla convenienza dell’alternativa liquidatoria, i valori di cessione dei rami d’azienda, nonché il prezzo di cessione degli assets, non erano in linea con i valori di mercato desumibili dalle condizioni di vendita/locazione.

In definitiva, rilevava l’Agenzia, la società non aveva fornito le informazioni necessarie a illustrare in modo completo, veritiero e trasparente la propria situazione, né gestito il patrimonio nell’interesse dei creditori.

La società replicava evidenziando che il dissenso dell’ufficio era pervenuto oltre il novantesimo giorno, previsto dall’articolo 63, commi 2 e 2-bis, CCIII, e che, stante la mancata costituzione dell’Ente, lo stesso dissenso non avrebbe dovuto neppure essere acquisito al fascicolo.

Le cause della crisi societaria, del resto, asseriva la ricorrente, erano da ricondurre a un’epoca anteriore rispetto alle cessioni di beni aziendali e, comunque, il coinvolgimento dei soci e dei loro familiari nelle operazioni straordinarie era viceversa sintomatico dello sforzo per far fronte agli impegni presi.

Infine, i valori di cessione degli assets erano stati a suo avviso correttamente individuati in base al prezzo di vendita e l’operazione di conferimento prevista nel piano non era artificiosa, ma effettiva.
In definitiva, sosteneva la società, la proposta di transazione rimaneva comunque più conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.

Il Collegio rigettava il ricorso sulla base delle seguenti osservazioni.
Preliminarmente i giudici ritenevano che non potesse essere attribuito alcun rilievo alla circostanza che la comunicazione di dissenso dell’Agenzia delle entrate fosse intervenuta oltre il termine dei novanta giorni dal deposito della proposta di transazione, anche considerato che lo stesso dissenso era motivato sulla scorta delle integrazioni solo successivamente fornite dalla società.

In ogni caso, restava in capo al Tribunale la potestà di omologare forzosamente l’accordo, verificando, a tal fine, la sussistenza dei presupposti enunciati nell’articolo 63 CCII.
E proprio sulla base di tale verifica il Collegio riteneva che non sussistessero nella specie i presupposti del cram down.
L’Amministrazione finanziaria, infatti, rileva il Tribunale, aveva evidenziato una serie di lacune nella proposta originaria, avendo la società omesso informazioni rilevanti ai fini della individuazione di possibili azioni di massa da esperire nello scenario liquidatorio, nonché, comunque, la sussistenza di “una complessiva opacità con riferimento tanto alle reali cause della crisi, quanto alle operazioni straordinarie poste in essere negli anni immediatamente antecedenti la presentazione dell’accordo e che hanno visto coinvolti soggetti legati alla proponente”, oltre alla inattendibilità della contabilità nel suo complesso.

Nonostante i chiarimenti forniti dalla società, pertanto, secondo il Tribunale, le carenze indicate non erano state superate e non vi erano i presupposti per procedere all’omologa forzosa dell’accordo.
In particolare, le incertezze in merito al valore reale di mercato dei beni oggetto di cessione (nei confronti peraltro di soggetti legati da rapporti familiari con i membri della compagine sociale della ricorrente) precludevano al Tribunale di valutare gli importi effettivamente ritraibili dall’eventuale esperimento di azioni revocatorie (neppure prospettate in sede di relazione di attestazione), non assicurando ciò la veridicità e completezza dei dati esposti nella proposta.
A ciò si aggiungevano, poi, i rilievi circa l’attendibilità dei dati aziendali, essendo comunque onere del debitore illustrare la propria situazione in modo completo, veritiero e trasparente, fornendo tutte le informazioni necessarie e appropriate rispetto alle trattative avviate e ciò anche al fine di consentire al giudice un esercizio consapevole del cram down.

Non era pertanto possibile procedere a una (effettiva) valutazione della convenienza rispetto all’alternativa liquidatoria, non potendo il Tribunale “in ottica prudenziale, comprimere i diritti del creditore pubblico, a fronte di un dissenso concretamente motivato”.
In conclusione, e a prescindere dallo specifico caso processuale, giova evidenziare quanto segue.
Come ricordano anche i giudici nella pronuncia in commento, la previsione del cosiddetto cram down è stata introdotta al fine di superare “ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate” (Cfr., Relazione illustrativa al Dlgs 14/2019).
Bisogna allora distinguere tra atti di rigetto privi di motivazione e atti di diniego adeguatamente motivati.
E questo anche considerato che la stessa Agenzia delle entrate, con circolare n. 34/2020, ha fornito istruzioni ai propri funzionari per cui “l’eventuale diniego da parte dell’Ufficio dovrà necessariamente essere corredato da una puntuale motivazione, idonea a confutare analiticamente, in base ad elementi chiari, oggettivi e verificabili, le argomentazioni e le conclusioni”.
Certamente, infatti, non possono essere considerate “ingiustificate resistenze” quelle che si sostanzino in una specifica motivazione, anche considerato che, come giustamente ricorda il Tribunale, l’onere della prova ricade sul richiedente, il quale, se vuole accedere anche solo alla possibilità di richiedere il cram down, deve fornire ogni informazione utile (e veritiera) affinché il giudice sia messo in grado di effettuare le proprie valutazioni, valutazioni tanto più delicate laddove possono comportare la compressione dei diritti di un creditore pubblico.



Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale