Contro la presunzione semplice, onere della prova al contribuente

Contro la presunzione semplice, onere della prova al contribuente

In tema di accertamento analitico-induttivo, a fronte dell’incompletezza, falsità o inesattezza dei dati contenuti nelle scritture contabili, l’Amministrazione finanziaria può legittimamente completare le lacune riscontrate utilizzando, ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici, aventi i requisiti di cui all’articolo 2729 cc, con la conseguenza che l’onere della prova si sposta sul contribuente.
È quanto ha stabilito la Corte di cassazione, accogliendo le tesi del Fisco, con l’ordinanza n. 19851 del 12 luglio scorso.

Con la pronuncia in esame, la Corte ha cassato la decisione dei giudici tributari di secondo grado, per aver negato come, nel caso oggetto del giudizio, vi fossero elementi sufficienti per giustificare l’accertamento fondato su documentazione extracontabile attestante l’esecuzione di operazioni commerciali (vendita di olio e prestazioni di molitura) intercorse tra due società non fiscalmente in regola e per aver preteso, tra l’altro, dall’Amministrazione finanziaria, la “prova certa” dell’evasione e, quindi, la necessità di espletamento, da parte della stessa, di “indagini ulteriori più approfondite”, ovvero un approfondimento con elementi e indagini specifiche condotte direttamente presso una delle due società a processo.

Il fatto  
L’Agenzia delle entrate emetteva, nei confronti di una cooperativa impegnata nella produzione di olio da tavola, un avviso di accertamento, con il quale recuperava a tassazione un maggior reddito imponibile ai fini Irpeg, Irap e Iva. L’atto impositivo era bastato sulle risultanze di alcuni accertamenti ispettivi svolti dalla Guardia di finanza presso la cooperativa stessa, ma soprattutto presso una diversa società, nella cui sede venivano rinvenuti documenti extracontabili, che provavano l’acquisto di olio e di servizi di molitura effettuati presso la cooperativa oggetto di accertamento.

Impugnato l’avviso di accertamento dinanzi la competente Corte di giustizia di primo grado, lo stesso veniva annullato, in quanto ritenuto carente sotto il profilo delle prove portate dall’ufficio a sostegno delle maggiori imposte accertate.
L’Amministrazione finanziaria ricorreva, dunque, in appello dinanzi la Corte di giustizia di secondo grado della Puglia, che continuava, però, a dare ragione alla società contribuente, confermando l’annullamento stabilito in primo grado.
I magistrati pugliesi affermavano, infatti, che l’accertamento posto in essere dal fisco era “basato unicamente su indizi non confortati da prove concrete, su presunzioni che sicuramente costituivano un valido punto di partenza per indagini ulteriori più approfondite, da condurre possibilmente presso la società accertata”, ritenendo che fosse “necessario quindi un approfondimento con elementi ed indagini specifici condotte direttamente presso la cooperativa medesima”.
Avverso tali determinazioni dei giudici tributari di merito, all’Agenzia non rimaneva altra via se non quella di ricorrere, in ultima istanza, dinanzi la suprema Corte di cassazione.

La decisione
Chiamati a pronunciarsi definitivamente sulla questione, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso del Fisco e cassato la decisione dei giudici tributari di merito.
I magistrati di piazza Cavour hanno, infatti, censurato la decisione dei giudici pugliesi per aver male applicato la disciplina dell’onere della prova in materia di accertamenti fiscali.
È ormai, infatti, pacificamente non contestata, hanno ricordato i giudici romani, la piena valenza probatoria di una documentazione extracontabile rinvenuta presso altra società e facente riferimento a operazioni commerciali intrattenute da quest’ultima con la società contribuente oggetto di accertamento, che non aveva registrato alcuna di quelle operazioni.

Come già ricordato in più occasioni dalla stessa Corte di cassazione, e da ultimo con la decisione n. 30985/2021, a fronte dell’incompletezza, falsità o inesattezza dei dati contenuti nelle scritture contabili rinvenute presso la società oggetto di accertamento, l’Amministrazione finanziaria può completare le lacune riscontrate utilizzando, ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici, aventi i requisiti di cui all’articolo 2729 del codice civile, ovvero presunzioni gravi, precise e concordanti, basate su indizi chiari e coerenti.

Con l’utilizzo delle presunzioni semplici, l’onere della prova si sposta sul contribuente, che dovrà dimostrare pienamente di non aver sottratto alcun cespite economico alla tassazione prevista dalla normativa fiscale nazionale.

Con specifico riguardo, poi, alla cosiddetta contabilità in nero, i giudici di legittimità, seguendo un filone già percorso (cfr Cassazione, pronunce nn. 12680 e 27622 del 2018, 14150/2016 e 20094/2014), hanno ribadito come, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’articolo 39, comma 1, lettera c), del Dpr n. 600/1973, consente all’Amministrazione fiscale di procedere alla rettifica del reddito “anche quando l’incompletezza della dichiarazione risulta dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, da cui derivino presunzioni semplici, desumibili anche da documentazione extracontabile ed in particolare da contabilità in nero, costituita da appunti personali ed informazioni dell’imprenditore, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e ss. c.c. tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta”.

Per quanto detto, secondo i magistrati romani è stato evidente l’errore di diritto in cui è incorsa la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, che non ha ritenuto come, nel caso, esistessero tutti gli elementi per giustificare l’accertamento posto in essere dall’ufficio e fondato su documentazione extracontabile attestante l’esecuzione di operazioni commerciali intercorse tra la cooperativa parte in causa e la diversa società, presso la quale è stata rinvenuta la documentazione relativa alla vendita dell’olio e alla prestazione di servizi di molitura ottenuti dalla cooperativa stessa.

Risolvendo, quindi, la questione in ultima istanza, la Corte di cassazione ha accolto le tesi e le richieste avanzate dal Fisco e ha cassato la decisione dei giudici tributari favorevole alla contribuente.



Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale