No all’impugnabilità dell’atto, se i motivi sono oscuri e lacunosi

No all’impugnabilità dell’atto, se i motivi sono oscuri e lacunosi

Il ricorso per cassazione deve rispettare i requisiti di chiarezza, sinteticità e di precisa riferibilità alla decisione impugnata imposti dall’articolo 366 cpc al fine di porre la Corte nelle condizioni di effettuare, con la dovuta concentrazione e immediatezza, il controllo di legittimità a essa assegnato; l’inosservanza di tali prescrizioni può condurre a una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dalla legge.

Questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 33904 del 5 dicembre 2023.

La vicenda processuale
Una contribuente impugnava dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Toscana la sentenza, emessa dal collegio provinciale di Firenze, che aveva dichiarato inammissibile il suo ricorso perché notificato tramite posta elettronica certificata nonostante all’epoca dei fatti non fosse ancora entrata in vigore la relativa disciplina.
Il giudice di seconde cure – sul rilievo che il ricorso originario era stato notificato il 14 aprile 2015 e che, solo con l’introduzione dell’articolo 16-bis del Dlgs n. 546/1992, la modalità di notifica elettronica era divenuta possibile, e ponendo altresì in evidenza che il processo telematico presso le Commissioni tributarie della Toscana era stato attivato il 1° dicembre 2015 – confermava il decisum del collegio provinciale.

Avverso la sfavorevole sentenza della Ctr, n. 569/1/2019, la parte privata ricorreva in sede di legittimità, chiamando in giudizio il ministero dell’Economia e delle Finanze, la Commissione tributaria regionale della Toscana e l’Agenzia delle entrate.

In particolare, come si legge nella pronuncia in commento, il ricorso si articolava in quarantaquattro pagine, di cui trentanove dedicate a una minuziosa ricostruzione delle vicende del giudizio e, tra l’altro, a disquisizioni sulle “nullità delle notifiche di controparte”, sull’“incostituzionalità del Dpr 115/02 anche nella sua interezza”, sull’“analisi giuridica al fine di rappresentare alla Corte le differenze tra la telematica e la pec, in cui qt come in Italia e in Giappone è anche un mezzo della prima”.
A fronte del contenuto estremamente sintetico della sentenza di appello, l’impugnazione di legittimità si sviluppava,, dunque attraverso le riferite quarantaquattro pagine, cui se ne aggiungevano trecentoquaranta di una memoria, come osservato dalla Corte, “non sintetizzabile nel suo contenuto essenziale ed il cui filo conduttore non sempre è dato cogliere, in ragione delle disquisizioni assai eterogenee, vaganti sulle più disparate disposizioni normative … e di tante altre inconferenti disposizioni anche del codice civile), che non hanno una specifica attinenza con il tema deciso dal Giudice regionale”.

La pronuncia della Corte
Il giudice di nomofilachìa ha rigettato il ricorso e, pur senza liquidare le spese a favore delle controparti in ragione del mancato svolgimento di attività difensiva, ha dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Nello specifico, il Collegio supremo ha rilevato che l’esposizione del ricorso e della memoria dell’istante “non rispondono ai requisiti di chiarezza, sinteticità e di precisa riferibilità alla decisione impugnata, come imposti dall’art. 366 cod. proc. civ., nei termini chiariti dalla costante giurisprudenza di questa Corte … in ordine ai requisiti di specificità ed autosufficienza, normativamente richiesti per porre la Corte nelle condizioni di effettuare, con la dovuta concentrazione ed immediatezza, il controllo di legittimità ad essa assegnato”, caratterizzandosi, piuttosto, “per l’assenza di ogni sforzo di economia processuale, volto a puntare sulla critica diretta all’elementare ragione su cui si è basata la sentenza impugnata, così trascurando di considerare che il ricorso per cassazione costituisce un rimedio di tipo impugnatorio a critica vincolata, «con riguardo al quale quelle di precisione, chiarezza, pertinenza e sinteticità costituiscono […] non già mere ed opzionali connotazioni stilistiche, ma puntuali e cogenti prescrizioni di legge […] funzionali al corretto espletamento del suddetto controllo di legittimità”.

Osservazioni
Secondo quanto stabilito dall’articolo 366 del codice di procedura civile, il ricorso per cassazione deve contenere, tra l’altro, a pena di inammissibilità, “3) la chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso” e “4) la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”.

Al riguardo, a partire dalla sentenza a sezioni unite n. 37522/2021, è costante l’insegnamento di legittimità secondo il quale il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, “occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.”, perché l’inosservanza di tali doveri può condurre a una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione “quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.” (da ultimo, Cassazione, n. 28801/2023, n. 24887/2023, n. 21097/2023 e n. 20209/2023).

Nel caso specifico, i togati del Palazzaccio hanno dunque inteso riaffermare una regola di correttezza e di leale collaborazione tra i soggetti coinvolti nel contenzioso, la cui violazione viene ritenuta in contrasto con l’obiettivo del processo, “volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (artt. 111, comma 2, Cost. e 6 CEDU) senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui” (Cassazione, n. 25706/2023, n. 22379/2023 e n. 17753/2023).
D’altra parte, il principio della chiarezza e sinteticità degli atti del processo costituisce una regola generale del codice di rito civile, considerato che l’articolo 121 cpc prevede, tra l’altro, che “Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”; e anche nel processo amministrativo la legge (articolo 3, comma 2, del Dlgs n. 104/2010) stabilisce che “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”.
Sul punto, si osserva, infine, per completezza, che, da ultimo, il Dlgs n. 220/2023, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 3 gennaio 2024, ha esteso questa regola anche al giudizio dinanzi alle Corti di giustizia tributarie, prevedendo, nel comma 1 del neointrodotto articolo 17-ter del Dlgs n. 546/1992, che “Gli atti del processo, i verbali e i provvedimenti giurisdizionali sono redatti in modo chiaro e sintetico” e, attraverso l’inserimento nell’articolo 15 del medesimo Dlgs n. 546/1992 del 1992, del comma 2-nonies, che “Nella liquidazione delle spese si tiene altresì conto del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza degli atti di parte”. 



Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale