La regolarità formale dei registri non esclude la condotta evasiva

La regolarità formale dei registri non esclude la condotta evasiva

Una volta acclarata l’esistenza di attività non dichiarate, anche mediante presunzioni semplici originate da accertamenti condotti presso terzi e dai dati e dalle notizie che l’Ufficio abbia appreso all’esito degli stessi, il meccanismo innescato dai controlli erariali genera gli effetti propri della prova per presunzioni della condotta evasiva. Rispetto a tale condotta, non solo non è invocabile la regolarità formale della contabilità tenuta dal contribuente, ma neppure è sostenibile che l’Amministrazione debba assolvere un onere probatorio ulteriore, avendo essa adempiuto il proprio compito attraverso gli elementi indiziari posti a base dell’accertamento. Spetta, dunque, al contribuente, in conformità alle regole generali fissate dall’articolo 2697 del codice civile, dimostrare fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa tributaria. È questo il principio che viene ribadito dai giudici della Suprema corte nell’ordinanza n. 26141 del 7 ottobre 2024.

La fattispecie in contenzioso

La controversia in commento origina dalla notifica da parte dell’Agenzia di un avviso di accertamento nei confronti di una ditta individuale con il quale, ai sensi degli articoli 39, comma 1, lettera c), del Dpr n. 600/1973 e 54, comma 3, del Dpr n. 633/1972, veniva rettificato il reddito d’impresa, il valore della produzione netta e il volume d’affari dichiarati dal contribuente, ai fini delle imposte dirette e dell’Iva, con riferimento all’anno d’imposta 2007. Ne discendeva il recupero a tassazione dei ricavi, cc.dd. “in nero” desunti dall’emissione di fatture non contabilizzate rinvenute nel corso di controlli incrociati eseguiti nei confronti dei clienti della ditta accertata.

Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento in parola dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Chieti, la quale accoglieva il suo ricorso, annullando l’atto impositivo.

La decisione successivamente veniva confermata dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sezione staccata di Pescara, che respingeva l’appello dell’Agenzia osservando che l’amministrazione finanziaria non aveva «fornito alcun elemento idoneo per ritenere che le prestazioni indicate» nelle fatture acquisite presso i clienti della ditta individuale accertata fossero «effettivamente avvenute, con conseguente produzione di reddito in favore del contribuente».

Avverso tale sentenza l’Agenzia proponeva ricorso per cassazione contestando, tra l’altro, la violazione e la falsa applicazione degli articoli 2697, 2727 e 2729 codice civile, nonché dell’articolo 39 del Dpr n. 600/1973 e dell’articolo 54 del Dpr n. 633/1972, in quanto i giudici del gravame, in contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità, avevano erroneamente escluso la valenza presuntiva dei dati raccolti dall’Ufficio accertatore presso terzi e l’idoneità degli stessi dati né avevano evidenziato che spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’infondatezza della pretesa tributaria.

La decisione della Corte di cassazione

L’ordinanza in commento torna sul tema dell’individuazione della corretta misura in cui distribuire l’onere probatorio tra la parte pubblica e quella privata nell’ambito del processo tributario, affermando che “una volta acclarata l’esistenza di attività non dichiarate, anche mediante presunzioni semplici originate dagli accertamenti condotti presso terzi e dai dati e dalle notizie che l’Ufficio abbia appreso all’esito degli stessi, il meccanismo innescato dai controlli erariali genera gli effetti propri della prova per presunzioni della condotta evasiva, rispetto alla quale non solo non è all’opposto invocabile la regolarità formale della contabilità tenuta dal contribuente, ma neppure è sostenibile che l’Amministrazione debba assolvere un onere probatorio ulteriore, avendo essa adempiuto il proprio compito attraverso gli elementi indiziari posti a base dell’accertamento e spettando, invece, al contribuente, in conformità alle regole generali fissate dall’art. 2697 c.c., dimostrare fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa tributaria”.

Gli stessi giudici di legittimità in particolare evidenziano l’errore commesso dai giudici del secondo grado del giudizio in quanto essi discostandosi dai principi di diritto più volte enunciati dalla Suprema corte, “a fronte di fatture acquisite dagli accertatori presso terzi clienti della ditta individuale accertata, documentanti operazioni commerciali non contabilizzate dalla contribuente” hanno posto “a carico dell’Agenzia delle Entrate l’onere di fornire ulteriori elementi probatori a sostegno della pretesa tributaria, non considerando che gli indizi da questa addotti a sostegno dell’esistenza di ricavi non dichiarati avevano determinato l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente”.

Brevi osservazioni

Come noto che le presunzioni semplici sono indizi o fatti noti dai quali l’Amministrazione finanziaria può dedurre l’esistenza di attività non dichiarate, ossia redditi non denunciati o ricavi occultati. Le presunzioni semplici devono essere gravi, precise e concordanti per poter giustificare un accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Pertanto, se da controlli incrociati o accertamenti presso terzi emerge che un’impresa ha ricevuto compensi non registrati in contabilità, l’Agenzia può presumere che vi siano ricavi non dichiarati. Le presunzioni semplici quindi richiedono l’onere della prova a carico del fisco.

D’altronde gli accertamenti presso terzi sono uno strumento usato dall’Agenzia per verificare la regolarità delle operazioni economiche di un contribuente attraverso la raccolta di informazioni da soggetti diversi dall’impresa o persona controllata (ad esempio, fornitori, clienti o istituti di credito). Queste verifiche possono rivelare incongruenze che potrebbero far emergere presunzioni di attività non dichiarate.

Al contempo, la regolarità formale della contabilità si riferisce al rispetto delle normative contabili e fiscali nel tenere i libri contabili. Una contabilità formalmente regolare non esclude la possibilità di accertamenti da parte dell’autorità fiscale, soprattutto, nel caso in cui vengano rilevati elementi indiziari che suggeriscono la sussistenza di irregolarità sostanziali. Ne discende che se dagli accertamenti condotti presso terzi emergono discrepanze tra i dati raccolti e quelli risultanti dalla contabilità, ciò potrebbe portare all’accertamento di attività non dichiarate, anche se la contabilità appare formalmente in regola.

In definitiva, le presunzioni semplici possono essere usate dall’Agenzia per accertare attività non dichiarate. Gli accertamenti presso terzi possono fornire prove utili per individuare eventuali redditi non dichiarati, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare un accertamento può essere condotto se emergono presunzioni di irregolarità.

Nella decisione in commento, i giudici di legittimità confermano la validità del principio secondo cui l’Amministrazione può effettuare un recupero a tassazione in ragione di presunzioni semplici basate su dati e notizie apprese da terzi o su accertamenti effettuati presso terzi, atteso l’ampio potere conoscitivo della posizione fiscale, riconosciuto dalla legge all’autorità fiscale e limitato solo dal rispetto dei diritti costituzionali; ciò determina altresì l’inversione dell’onere della prova, essendo il contribuente tenuto a dare prova dell’infondatezza della pretesa erariale (in tal senso, si veda anche, sentenza della Cassazione n. 18232 del 16 settembre 2016).

Ora, è fondamentale evidenziare, in conclusione, che la Suprema Corte giunge a tale posizione negando la sussistenza di una presunzione legale ab origine in favore dell’Amministrazione finanziaria, affermando al contempo la sussistenza soltanto dell’onere probatorio contrario sul contribuente una volta che l’Ufficio abbia assolto, sia pure sulla base di presunzioni semplici, l’onere di dimostrare l’insussistenza dei presupposti per riconoscere la detrazione fiscale (vedi anche Cassazione n. 23780/2022).



Fonte: https://www.fiscooggi.it/ Vai all’articolo originale